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Apparizioni e assenze
Chiara Smirne dipinge di notte. Non mi ha stupito quando l’ha detto mentre mi raccontava del suo modo di fare arte. Nel silenzio ovattato di un mondo sommerso nel sonno, Chiara si mette davanti al cavalletto e libera la fantasia, l’inconscio, le più profonde emozioni, la sua delicata e tormentata sensibilità. È nell’atmosfera crepuscolare che prendono forma i suoi immaginari paesaggi urbani: siano essi vedute di metropoli congestionate da messaggi pubblicitari, piazze e vicoli storici, scorci dall’ardito taglio fotografico di negozi e facciate di palazzi, lunghi viali persi nell’oscurità piuttosto che in uno sfondo di grattacieli, tutti emanano sensazioni di smarrimento, mistero, inquietudine. I suoni della città sembrano spegnersi e il battito frenetico rallentare. Certo anche lo stile e la tecnica adottate dall’artista concorrono a creare queste allucinate realtà: la definizione e la pulizia delle linee, le campiture di colori piatti, uniformi, freddi, talvolta cupi conferiscono ai paesaggi una trascendenza temporale che imprigiona sulle tele i sentimenti e le angosce dell’esistenza metropolitana. Esistenze, vite umane di cui si percepisce sempre la presenza, il respiro, ma che spesso non sono viste, talvolta intraviste o che assumono forme che sì ricordano “l’uomo”, ma che umane non sono: è il caso di opere come L’attesa e La tienda in cui si suppone ci siano persone, ma a comparire nei dipinti sono solo immobili manichini. Altre volte, come in Statue, la figura umana è evidente, ma viene spersonalizzata, quasi fosse privata dell’anima e messa a confronto con una gelida statua di marmo che sembra più vitale della vita stessa.
 
Così i paesaggi urbani di Chiara Smirne diventano simbolo di ricordi di vite, di disagi esistenziali, specchi di ansie, colmi di appagamenti illusori ma poveri di sentimenti e valori, dove un’umanità smarrita è sempre presente, con apparizioni e assenze.
 
L’artista mette in scena spettacoli surreali, gli scorci urbani sembrano scenografie teatrali, cinematografiche, architetture posticce che fanno percepire la vacuità e l’inconsistenza delle finzioni create dell’uomo. In questi luoghi le finestre degli edifici assumono una valenza emblematica, sono aperture-chiusure, diaframmi tra mondi privati e quello comunitario.
 
Aperture laddove, attraverso i vetri, si scorge una luce accesa, la sagoma di un corpo; chiusure quando grate, tendaggi, oscurità imprigionano chi è dentro e non permettono di far entrare lo sguardo esterno; smarrimento e ansietà dove a occupare tutta la grandezza delle finestre sono volti, spesso solo parte di essi, smisuratamente grandi. Sono fisionomie reali, vi si riconoscono talvolta personaggi del cinema e della musica, inseriti nelle opere sia per grande ammirazione piuttosto che per affinità strettamente legate alla sfera privata dell’artista. Per esempio, in Vicolo K.C. compaiono, intrappolati nel riquadro delle finestre,  particolari dei visi di Kurt Cobain e Courtey Love. Difficile qui identificarli, ma ciò che conta è che l’artista prova nei loro confronti un legame profondo di solidarietà e comprensione perché – malgrado il successo, la fama e la ricchezza – non sono stati in grado di dare un senso alla propria vita, di trovare la felicità o quantomeno la serenità, non sono riusciti a placare il loro tormento esistenziale e a colmare il vuoto abissale di un dramma psicologico.
 
Dreaming an inland empire è invece un chiaro tributo a David Lynch, dove il suo ritratto frammentato è riconoscibile attraverso l’apertura di molteplici finestre. La poetica visionaria e dell’assurdo del regista è molto sentita e interiorizzata dall’artista. Anche lei, come Lynch, rappresenta luoghi comuni di una normalità esasperata che nasconde terribili emozioni. Chiara Smirne dipinge mondi appartenenti a un’apparente realtà quotidiana, ma come lei stessa afferma sono luoghi ispirati da sogni, ricordi, paure. L’effetto di smarrimento che imprime alle sue tele è dato dalla creazione di una struttura onirica e da una messa in scena delle visioni dell’inconscio, delineato da un’ambiguità in contesti apparentemente normali – lo scorcio di una piazza, l’interno di un cortile, la prospettiva di una strada cittadina – scenografie stereotipate dove la realtà è il paradigma stesso della superficialità, della quotidianità, dell’ovvietà. Con uno sguardo attento si riesce a cogliere il messaggio comune a molte delle opere di Smirne, come ad esempio For sale raffigura un viale ai cui lati corre una carrellata di negozi e palazzi, all’orizzonte profili di grattacieli si stagliano nei colori surreali del cielo. L’artista riesce sempre, qui come altrove, a creare una deformazione temporale in cui le ore si percepiscono dilatate e sospese. Rappresenta il paesaggio urbano con una lentezza pastosa ed esasperata riuscendo a cogliere quello che si cela dietro le quinte: le ansie e i dolori umani in un ambiente quotidiano, ma anche i sogni e le speranze che questo mondo possa cambiare, i negozi riaprire dopo uno statico periodo di crisi, le finestre tutte uguali spalancarsi e far entrare una brezza vitale nelle abitazioni.
 
È il tempo della finzione umana che aleggia in questi dipinti, dove ciò che davvero conta non può essere visto a occhio nudo ma solo lasciandosi trasportare dalle emozioni personali. Dietro una pacata parvenza si nasconde il lato oscuro dell’esistenza, che Chiara Smirne fa affiorare in superficie, con una rappresentazione dell’inconscio attraverso visioni rallentate e intorpidite di un mondo artefatto creato dall’uomo, dove l’assurdità prevarica la ragione.
 
Veronica Riva
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